I turisti del genocidio

Chissà se 26 anni fa faceva questo caldo. Chissà se quando i soldati vietnamiti sono entrati nell’ex liceo di Tuol Sleng faceva cosi caldo. Il periodo era più o meno questo, quasi due milioni di cambogiani erano già morti di fame, fatica o esecuzione, circa 15 mila solo qui, alla periferia di Phnom Penh, in questi tre edifici che creano un rettangolo cinto di filo spinato. Probabilmente si, faceva caldo, è la stagione prima del monsone.
Pagati i due dollari entro anch’io al Tuol Sleng Genocide Museum, il famigerato killing field S-21 del samoi Pol Pot, i quattro anni di incubo del regime rosso del fratello numero uno, l`ex maestro Pol Pot.
Chi mi vende il biglietto mi chiede da dove vengo, scherza un po’, mi dice che non si può fare foto ma per me è ok e se voglio comprare un libro con le foto delle esecuzioni, fa solo 15 dollari. Me lo dice così, sorridendo.
Una decina di stanze affacciano su un porticato soleggiato, il legno delle porte spalancate è consunto. In ogni stanzone c`e` la branda di ferro su cui venivano torturati i presunti nemici della rivoluzione, una garitta malconcia in cui forse evacuavano e un ceppo arrugginito per bloccarli al letto. Poi una grande foto al muro, in bianco e nero: un impiastro d metallo, carne, sangue e  allucinazione. Una in ogni stanza. E nient’altro. 
Nel giardinetto alberato, accanto alla panchina per fermarsi a pensare un po’, un grande cartello riporta in khmer, francese e inglese le 10 regole che gli ospiti dell`S-21 erano tenuti a rispettare. Mi colpisce la numero 6, che recita più o meno: anche se subisci frustate o scosse elettriche non devi assolutamente urlare, è proibito urlare. Oggi sento urlare solo la guida del gruppo di turisti giapponesi che in fila indiana segue diligentemente il percorso indicato. Qualcuno di loro esce una macchinetta digitale e fotografa, ma quasi di nascosto, si vergogna un po’.
Le stanze dei detenuti in attesa dei maniacali interrogatori dei Khmer Rouges sono una teoria di minuscoli cubicoli di mattoni grezzi, chiusi da una inferriata e da una porta con una fessura per essere controllati. Il ballatoio che corre lungo il secondo e terzo piano dei 3 edifici è delimitato da metri di filo spinato, messo li come una rete da calcio per evitare che i detenuti si buttassero sotto, cercando scampo nel suicidio. Ovviamente era vietato togliersi la vita. 
Solo Angkar, l’Organizzazione, l’ aleatorio partito del popolo, poteva discernere sulla vita e la morte delle formichine cambogiane, il cui unico scopo era di partecipare alla nascita di una nuova grande Cambogia Democratica (la parola socialista o comunista pare non appaia mai nella costituzione approvata dal partito rivoluzionario).
Niente guadagno a tenerti in vita, niente perdita a eliminarti: molte delle persone che ho conosciuto in questi giorni mi ripetono il motto di Angkar guardandomi con uno sguardo indecifrabile. 
Gli otto milioni di cambogiani che nell’ aprile del 1975 si ritrovarono ad essere comunisti forzati dalla sera alla mattina sarebbero stati per 4 anni le pedine necessarie a realizzare l’ utopia rivoluzionaria più intransigente e sbrigativa della storia. Chi non riusciva a lavorare per 18 ore al giorno immerso nelle acque delle risaie, chi non sopportava il  violento esproprio di ogni proprietà privata o di ogni dimensione spirituale, chi non tollerava di
sopravvivere con un pugno di riso, era indicato come un contro rivoluzionario da eliminare. Nell’ inno nazionale dell’ epoca la parola sangue ritorna spesso insieme alla parola contadino.
E sangue fu.
Attraverso una stanza dopo l’altra osservando i volti di chi non uscì vivo da questa scuola convertita in macello. I carcerieri avevano metodo, annotavano le biografie dei sospetti, le confessioni estorte con la forza, gli arrivi e le partenze definitive di migliaia di intellettuali, borghesi, bonzi o semplici cambogiani capitati in uno degli incubi della storia. 
Non solo scrivevano, i carcerieri, (attività negata rigorosamente al resto della popolazione), ma fotografavano. Centinaia e centinaia di foto in un b/n sbiadito, volti di uomini e ragazzi, volti di donne con bambini in braccio. E tutti con un cartellino al collo per indicare le entrate del giorno, spesso due o tre cento. 
114, donna dal sorriso triste. 
286, contadino dalle orecchie a sventola. 
329, terrorizzato. 
Li guardo pensando alla vita che facevano prima di quell’aprile, cercando un particolare fisionomico, un dettaglio per ricordarmeli. Foto grandi e piccole,quelli appena arrivati e quelli in catene e insanguinati su uno dei letti che ho visto prima. Passeggio nel terzo edificio, ogni tanto incrocio qualche altro turista. 
Il sole fuori è a picco e le cicale rumoreggiano. Strumenti di tortura, poi altre foto e poi i quadri di uno dei sette sopravvissuti del killing field. Lo stile è naif, l’abominio rappresentato no. Mi avvio all’ uscita passando accanto alla bottega di souvenir che sta in mezzo al cortile. Mi sembra che nessuno si fermi a comprare un cappellino o una sciarpa con la testa di Buddha.
Alla fine esco e vado a mangiare nell’ elegante ristorante che ha pensato bene di fare affari giusto di fronte 
all’ingresso del Tuol Sleng, dove in poco meno di 3 anni sono state violentemente eliminate quasi ventimila persone.



Un’indovina mi ha detto

 “Mischia le carte nove volte”, l’avrà ripetuto una dozzina di volte la mia affascinante indovina. E’ il rituale a creare la convinzione e quindi la magia, quindi per partecipare al gioco smazzo ben bene le carte da poker che mi racconteranno il futuro.
Le unghie rosse ben curate, le ciglia lunghe e gli zigomi alti: l’ eleganza della mia prima indovina stona piacevolmente con l’ interno di questa baracca che fa da studio, casa e luogo di culto. E visto il traffico di persone che entrano in questa stanzetta che affaccia sul vicolo buio, sembra che la cartomante faccia da confidente agli abitanti di tutto il quartiere.
L’ amica antropologa che mi accompagna la conosce bene, ne ha gia frequentati e studiati tanti altri, i bonzi delle pagode con le loro divinazioni celesti e gli akun dei villaggi che prevedono grazie alla trance sciamanica. 
“Questa, vedrai, ne racconta tante ma qualcuna le azzecca. Ti divertirai, comunque”. 
Scendiamo dal nostro tuk tuk (una carrozzella a 3 ruote trascinata da una moto) nel quartiere del vecchio mercato, un coacervo sudato e ribollente, niente a che vedere con le trattorie italiane e gli internet cafè che i turisti dei templi frequentano solo qualche isolato più in là. Khmer di origine cinese vendono povere cose sui gradini delle baracche di paglia e bambù, altri dondolano sulle amache stese sotto le palafitte ammucchiate una sull’ altra. Chi aggiusta una vecchia moto, chi gorgheggia lamenti melodiosi, i più, ormai alla fine della giornata, chiacchierano assieme nella penombra del tardo pomeriggio.
“Ti sta chiedendo se sei fidanzato”. Io provoco “Beh, essendo lei la maga dovrà pure saperlo”. L amica antropologa mi guarda con ripicca, come se stessi minando il suo spettacolo personale. “Allora, vorrei sapere che percorso spirituale avrò nella vita”. Niente, l’ amica si rifiuta di tradurre, mi aveva già avvertito. Qui niente sistemi massimi, niente grandi visioni, ma tutt’ al più previsioni a breve termine sui piccoli grandi fatti della miseria quotidiana. 
Chi viene qui, soprattutto le donne, cioè coloro che gestiscono la baracca domestica, vuole avere conferme, conforto, speranza su un figlio da curare, su un affare da concludere, su un tradimento da scoprire. La linea che unisce soldi-amore-salute è un meridiano che attraversa tutte le latitudini. 
Insomma, faccio spallucce e la cartomante parte a ruota libera. Mentre distribuisce le carte sul tavolino di plastica mi distraggo guardando uno dei suoi figli, immagino, che spulcia ben bene un gattino sul pavimento di linoleum. Lo guardo, ma ha difficoltà a restituirmi il sorriso che ogni tanto gli rivolgo.
“Hai difficoltà a fare soldi col tuo lavoro”. 
“Ah si? E poi?”. 
“Dice che la tua compagna ti ama davvero e non vede l’ ora di vederti”. 
“Dice che dovresti avere un figlio fra 2 o 3 anni e allora si, comincerai a guadagnare.”. Dopo un quarto d’ ora torna sull’ argomento: avrò una figlia a 32 anni.
Alle spalle della maga che crea sul tavolo forme geometriche sempre nuove distribuendo le carte che diligentemente mischio, si staglia con una commovente pacchianeria un altarino a forma di pagoda. Qui a Siam Reap ne ho gia visti dappertutto: grandi, tascabili, color oro, con ricami raffinati ma dai colori improbabili, ad ogni angolo di strada, in ogni ristorante o negozio, in tutte le case c’ è sempre un’offerta poggiata li per rendere omaggio agli dei, agli antenati, a Buddha. Pare proprio vero quel che avevo letto: la superstizione, o meglio, la credenza, trasuda dalla società cambogiana. Pur presi dagli impicci della sopravvivenza i sorridenti khmer hanno sempre tempo per una celebrazione, una cerimonia o un’offerta. Ad esempio su questo altarino sono poggiati un casco di minuscole banane, un bicchiere d’acqua e tante bacchettine d’ incenso che fuma lento.
Forse convinta del mio scetticismo la bella maga-madre di famiglia mi afferra sinuosamente la mano per leggerla, credendo che il contatto fisico con i segni del mio destino mi faccia ricredere. Dice ancora una volta delle cose esatte, altre prevedibili, altre del tutto fuori luogo. Ma tant`e`, ognuno cerca alla fine di inquadrare alcune peculiarità caratteriali o alcune coincidenze stupefacenti in un quadro logico dove tutto torna, è credibile.
Quando lascio la casa, con un certo dispetto per non aver potuto giocare troppo con l’ irreprensibile indovina, penso che, perchè no, lei deve nutrire la famiglia e qualche volta indovina pure e poi la gente del quartiere vuole ogni tanto un po’ di psicoanalisi a buon prezzo. 
I problemi veri sono al di là della soglia della casetta della maga. 
Percorrendo le stradine puzzolenti e fangose verso il nostro tuk tuk che ci aspetta, vedo una bambina piegata sulle ginocchia con un quaderno in mano. Ripete a cantilena la soluzione di un problema di matematica per il giorno dopo. 
Studia per strada alla luce del solo neon del grande cortile.



Motobai, ser 

 "Motobai, ser?" mi chiedono ogni giorno alcune decine di tassisti lungo le strade di Phnom Pehn. Non esistendo un servizio di trasporto collettivo, chi non ha la bici o non può permettersi uno scooter deve servirsi dei motodop, motociclisti che per pochi riel ti scorazzano per tutta la città. Gran parte di loro non ha più di 30 anni, in testa un berretto da baseball e talvolta una mascherina anti-smog, e sta in attesa fuori dai ristoranti, agli incroci del quartiere o vicino ai monumenti per guadagnare la corsa. Appena esco di casa, a qualsiasi ora, 3 o 4 motodoppisti mi corrono incontro, motobai, ser?, motobai, ser?, e non si arrendono al primo no, thank you.
A me piace molto camminare ma questa non è una città da scoprire passeggiando. Quindi ho scoperto la città in sella a una motocicletta.
La tariffa si contratta prima di partire, dipende dalla distanza o se ci si sale da soli o in due. E’ una bellezza sfilare senza casco per i vialoni dai ricchi negozi oppure nelle traverse di terra battuta. Le macchine in giro non sono molte ma c’è un incredibile formicolio di due ruote. O spesso tre, come i risciò, gli austeri taxi spinti a pedale o i carretti con cui trascinare il proprio banco di frutta e ortaggi.
E’ un po’ come nell’ Italia del dopoguerra, poco prima del boom economico. Una città asiatica dai toni pasoliniani per certi versi, con i ragazzi di vita che ti approcciano per oliare il loro inglese nasale, per le donne elegantissime che cavalcano le moto sedute all’ amazzone, per gli uomini che pisciano contro i muri con discrezione ma senza imbarazzo.
Siccome l’ energia costa, a Phnom Pehn la giornata inizia e finisce con la luce del sole. Nei grandi spazi aperti vicino al Mekong già alle 6 di mattina vedi schiere di anziani che si muovono lenti facendo tai-chi, ragazze che fanno jogging con le amiche, molti che passeggiano prima di andare a lavoro. Nelle ore più calde non si lavora, dall’ una alle tre la città si blocca, è semivuota, è il momento della siesta.
Quando la sera, lontano dalle strade principali è buio pesto, gli stranieri, i volontari delle ONG, i funzionari delle Nazioni Unite, prendono in mano la situazione. Lungo i grandi boulevard o nei pressi delle ambasciate arrivano alla spicciolata su fuoristrada e moto in affitto. Quasi tutte le mie serate nella capitale le ho passate con gli expat, gli expatriés, con quegli occidentali che hanno dovuto o voluto trasferirsi in Cambogia.
Walter è un ragazzone austriaco che lavora per la Croce Rossa. E’ appena tornato da Timor Est, in vacanza su una spiaggia che mi dice bellissima. Mi viene piuttosto da chiedergli della situazione politica o sanitaria dell’ isola. Di solito pensando a una spiaggia da sogno non ti viene in mente Timor Est, solo da poco uscita vittoriosa da una guerra civile con le truppe indonesiane che ne contendevano l’autorità. Il conflitto è terminato grazie ai caschi blu, poi a ruota sono arrivate le organizzazioni non governative per rimettere un po’ in sesto il paese. Walter mi racconta queste belle storie seduti al tavolo di un ristorante italiano. 
A Phnom Pehn la pizza è buona e le chiacchiere sono tante. Si accavallano e spesso convergono le storie personali di chi è venuto qui per costruire qualcosa, con la cooperazione internazionale ad esempio, o di chi è venuto qui per fare un lavoro interessante ma lontano da casa e quindi vive in apnea aspettando d’andar via. Un capitolo a parte sono i debosciati fuori stagione che vengono in Cambogia per perdersi o per trovare quel freedom feeling che molti di loro percepiscono in città. "Qua si sta bene. Se domani voglio lavorare mi alzo, altrimenti sto a letto e lavoro quando voglio. Se metti poi che tutto è economico e che la gente sorride sempre...". Il francese che mi parla del suo freedom feeling cambogiano forse a casa sua non trova niente da fare e poi qui, è vero, per un occidentale la vita è facile. E per questo praticamente tutti i cambogiani, mi par d’aver capito, credono che io sia ricco e cosi tutti gli stranieri che vedono in giro.
Così come penseranno i miei anonimi autisti che anche stavolta si avventano numerosi all’ uscita del ristorante. "Motobai, ser?, Motobai, ser?". 
Scelgo quello con la faccia più simpatica, mette in moto e filiamo via nella notte.



Le ore di religione

 Ho cambiato sistemazione per la quinta volta in poco più di una settimana. Questa volta a causa di un muezzin. Tutte le sacrosante mattine, attorno alle  5 e 30 il richiamo alla preghiera per i musulmani riecheggia potente per i credenti e per gli infedeli. Per chi abita vicino ad una moschea, e la mia
pensione pare stia proprio vicino, non c’è scampo. Certo, la famiglia cambogiana che vive giusto accanto alla mia finestra, separate dal rifugio per turisti da una sottile cortina di paglia, comincia trionfalmente la giornata poco dopo, facendo il bucato, canticchiando e scuotendo stoviglie. Alle 6 del mattino. Ma non è questo il punto. 
E’ interessane piuttosto come in un paese a larga maggioranza buddista, religioni monoteiste, culti animisti e variazioni new age si ritrovano liberamente ad accogliere i bisogni della gente in ogni circostanza della vita quotidiana. Ogni mattina si accendono gli incensi sugli altari domestici, chi deve prendere una decisione va da un indovino, per propiziare un buon periodo si fa una cerimonia. 
Mi sta capitando tutti i giorni di assistere ad alcuni di questi momenti, ottime cartine al tornasole per capire la Cambogia.
Un pomeriggio che già promette sera ci avviamo in tuk tuk verso uno dei templi del sito di Angkor. Sono insieme all’amica antropologa che lavora qui da una
decina d’anni con progetti di cooperazione, e 3 ragazzi di Clowns sans frontièrs, un’ associazione che porta frizzi e lazzi negli angoli meno allegri del globo. La brezza è leggera, il tramonto rende belli tutti i contadini seduti ai bordi della strada, la conversazione è piacevole. Mi dicono che viaggiano da
3 mesi fra Tailandia Cambogia e Laos. Gli chiedo di quest’ultimo paese e mi raccontano di un comunismo gentile e dei ritmi atavici delle campagne. Sintetizzando l’anima di questi 3 paesi, uno di loro mi ripete un motto che già conoscevo: i cambogiani coltivano il riso, i tailandesi lo vendono e i laotiani lo stanno ad ascoltare mentre spunta dalle acque delle risaie.
La notte cala veloce e passeggiamo distratti fra le rovine di un palazzo reale di 800 anni fa che sembra lentamente riassorbito dalla foresta che lo circonda. Il rumore degli insetti nel buio suona quasi digitale, gli accendini rischiarano a tratti i saliscendi in mezzo alle pietre annerite dal tempo. Mentre usciamo zitti zitti e in fila indiana per non perderci, penso che non mi stupirei troppo se saltasse fuori una tigre. Ci dirigiamo verso la città attraversando le
antiche porte che cingevano ai quattro angoli l’enorme complesso. Passata una lunga curva si apre un largo spiazzo. Sulla destra un enorme albero di tamarindo, sull’altro, ai margini delle alte mura della splendida terrazza degli elefanti, fluttuano nel buio decine e decine di fiammelle tenui. 
Un attimo e siamo accovacciati sui bordi della strada. Conto una trentina di monache e monaci avvolti in morbidi stracci bianchi, come fossero vestali greche
dai capelli rasati. C`e` chi cammina un passo dopo l’altro con l’andatura di un sonnambulo, altri sono piegati sulle ginocchia e fissano il vuoto. Tutti tengono in mano bastoni d’incenso alti 2 metri, ogni tanto ne piantano a terra altri più piccoli come a segnare un cammino. La nostra antropologa non si fa pregare e si avvicina discreta a chiedere lumi. E’una cerimonia buddista molto rara che questi anziani monaci celebrano per arrivare, mediante la meditazione, a  riconoscere le cattive azioni commesse nelle vite passate, osservarle e cosi allontanare da sé. Alla ricerca di una pulizia del kharma che nella prossima vita li liberi dal dolore intrinseco dell’esistenza. C’ è silenzio, solo ogni tanto passa una moto o un gruppo di contadini in bicicletta. Osservo uno dei monaci, cammina lentamente col bastone d’incenso in mano, indugia, poi si siede e versa per terra, da una teiera di metallo, acqua sporca di terra. Gli elementi che si ritrovano e si compenetrano, mi par di capire. E cosi per un paio d’ore, chi in silenzio, chi a scambiarsi a viva voce le visioni appena avute. 
Fino alle 4 del mattino dopo, prima di mettersi a pregare in coro, non faranno altro. 
Ci alziamo e andiamo via senza dire una parola.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Un accadimento qualsiasi (variante formicaio)
Una capanna d’assi approssimative è congelata in un pulviscolo denso, sfumato nella totalità dei toni. Il silenzio è infastidito da grilli metallici e cani lontani. Una squadrata proiezione luminosa invade l’ambiente staccandosi dal quadrato della porticina, del tutto spalancata sull’esterno accecante. Un tavolino vecchio, stantio, al centro dei 4 assi. Una bottiglia di vetro verde, macchiata di impronte di cemento irregolari, sta immobile sul bordo del tavolo. Un movimento tellurico, una sospensione di gravità, l’eco di un uragano, non importa: la bottiglia si abbatte su un lato. Dal collo consunto scende lento, come cascata tranquilla, un fiotto lungo di vino rosso, caldo. Sull’asse di caduta c’è un monticciolo di terra battuta, un foro buio che inghiotte e sputa formiche rosse e nere, minuscole o carnose, esagitate ma regolari. Trafficano la vita.
Il vino che cade, inutile accadimento entropico, inondando il formicaio crea rivoletti alcolici in cui le formiche annaspano disperate. Il caos, l’incoscienza del dolore. Quanti nutrimenti e morti e riproduzioni cancellate! La bottiglia è una botte da diluvio universale, generosamente terribile, non ha fine.
I grilli continuano, così i cani. La luce è la stessa, solo un po’ più decisa, comunque indifferente. Le formiche hanno smesso di lottare, sono una bandiera bianca forata di piombo.
Ora silenzio. Il regno è un pantano profumato di polvere e uva, sa quasi di morte.
 
 
Tutto ciò che non è donato va perduto
Il volontario è come una rockstar, riceve molto più di ciò che dà, Ne sei convinto?, Beh, noi seduciamo meno. Josè ci scarrozzava da un paio di giorni fra un ospedale e una scuola, la Fondazione in trent’anni ne aveva fatti di miracoli prosaici. Ma la mosca del cinismo ronzava imperterrita, rifiutavo il coinvolgimento incondizionato.
Lasciamo la strada principale ed imbocchiamo un sentiero che taglia la pianura sterminata: qualche campo di noccioline, l’unica cosa che qui la terra riesce a produrre, sporadici alberi rachitici e qualche contadino piegato su un aratro preistorico. Alcuni bambini scalzi ci rincorrono, si aggrappano alla ruota di scorta della jeep. Fingo di fotografarli e faccio le boccacce dietro il vetro rigato. Sai qual è la cosa straordinaria di questo posto?, Ce ne sono un bel po’ direi, Il fatto è che l’India è lì è pronta ad offrirsi all’ennesimo ingenuo che alla fine avrà solo accidente colorato, meraviglia transitoria, Sì e anche 45 gradi, fame e qualche cobra, Ok, ma ne vale la pena, dice Céline. Taceva pensierosa da quando avevamo lasciato la fattoria. Finisce di spolverare l’obiettivo e lo guarda in controluce. Andiamo in uno dei 1500 villaggi aiutati dalla ONG che stiamo filmando: si inaugurano undici nuove case, le prime in cemento. Sono poco più grandi di uno sgabuzzino, ma le mura di certo sono più resistenti agli elementi rispetto alle capanne di fango e paglia, impastate con gli escrementi e leggere come le efelidi.
Mi aspetto le borie delle inaugurazioni, il volontariato che avanza. I freni stridono, poco convinti, e ci fermiamo davanti a una folla in attesa. Apro lo sportello e un carnaio di persone mi viene incontro, tutta la comunità è lì ad accoglierci. Urlo un ciao sbruffone, giungo le mani per abbozzare un namasté. Due donne mi inghirlandano il collo con una spessa catena fatta di fiori e palle di plastica. Un’altra, più anziana, fa oscillare davanti agli occhi una bacinella d’acqua torbida, poi me la getta ai miei piedi e abbassa il capo. Scambio uno sguardo incredulo con Céline, Dove siamo finiti? Una mano, uscita dal mucchio colorato e ondeggiante mi disegna il terzo occhio in mezzo alla fronte, hennè rossa ruvida e ancestrale. Un turbinio di strette di mano, di come ti chiami? in un inglese insicuro, il tambureggiamento dionisiaco di alcuni vecchi invasati che percuotono asimmetricamente un cembalo di pelle di capra. Le due bacchette stantuffano in armonia con la terra avida e il calore abbacinante che appiattisce le forme e le volontà. Qualcuno porta degli ombrelli per ripararci dal sole. Céline fermati un attimo, sembri una Madonna, sorridi…Cerco di riprendere qualche immagine ma il corteo mi trascina lento verso la spianata con le case nuove, un serpentone avvolto in una nube rada di polvere rugginosa. I bambini si aggrappano ai pantaloni, cercano attenzione, lo sguardo radiografante, il sorriso incontaminato di chi ignora la malizia. Qualche donna al nostro passaggio si schermisce sull’uscio di una capanna, si sposta verso l’ombra generosa delle buganvillee, i gelsomini intrecciati nelle chiome oscillano come un pudore divertito. Io che ho sempre rigettato i panici coinvolgimenti di massa, qui non mi preoccupo di essere sbranato dai satiri dai cembali battenti e dalle baccanti fasciate dai sari morbidi. Mi sento un sorriso fra sorrisi. Sull’uscio della prima casa José, abituato a queste cerimonie gigioneggia con i nostri ospiti. Vieni, vieni, guarda ora. Rompe una noce di cocco su un sasso e mette le due parti su un tavolino, l’incenso brucia lento. Il battesimo delle nuove case inizia così. Un’immagine con un Cristo incorniciato da una moschea e dalla proboscide di Ganesh occhieggia a un palmo dal cocco ora intinto di terra rossa, la stessa che una mano sempre diversa continua a fissarmi sulla fronte e che il sudore continua a sciogliere. Céline è un puntino occidentale fra la folla che intasa il porticato di una casina accanto. Gocciolo come un panetto di burro, ho la faccia gialla come un clown itterico, i fiori della ghirlanda appassiscono. Josè Pablo mi tira a sé, Allora, per abbreviare la cerimonia segui uno di loro e vai a battezzare le case, Ma che dici, non è il caso, se poi si offendono, Vai, rilassati, li fai contenti, Ci vediamo dopo allora. Come sollevato dai contadini, fluttuo, non cammino, ma fluttuo, verso il mio rito inaspettato.  Afferro la noce di cocco e ripetutamente la sbatto per terra, con attenzione però: i pezzi rotti dovranno essere due, tre sarebbero di cattivo auspicio, almeno Josè aveva capito così. Nell’altra mano ho la telecamera, continuo a essere indeciso se vivere o filmare, filtrare o immergermi. Uno, due, tre quattro colpi, il guscio cede. Il calore e l’esaltazione fanno scherzi percettivi, sento un piffero lontano che non incanta nessun cobra. Ce l’ ho fatta, gli uomini battono le mani, sorridono col movimento armonico del capo, mi mettono in mano un paio di forbici spuntate. Esattamente in questo istante, fra le tante cose che ci stanno in cielo e in terra, penso a quando un paio di anni prima, appena arrivato a Roma a cercar fortuna, lessi un annuncio per arruolare volontari da spedire in India, e pensai al raggiro o magari alla soluzione estrema per una vita parallela, e ora sono qui a scalfire noci di cocco in un villaggio di dalits. Taglio il nastro ed entro in casa, il cemento ancora fresco concede un po’ di estemporaneo refrigerio. Una coppietta di sposini, i beneficiati della casina, mi guardano di sottecchi, come se fossi un prete a Las Vegas durante una cerimonia, con rispetto ed un fondo di sospetto. Riesco sulla verandina, una bambina stretta in un’uniforme blu mi porge una noce di cocco e una cannuccia arancione, Drink father, e scappa correndo, quasi uno spot per analcolici. Il sole e la confusione sono accostati, allo zenit, mi guardo intorno per ritrovare gli altri. Josè si tira dietro la sua muta di marmocchi che pigola per avere qualche caramella, mi viene incontro con un sorriso criptico. Céline si siede accanto a me, sul muricciolo screpolato. Ma ti rendi conto che cosa è capitato in una mezz’ora?. Lei aveva preso in mano la telecamera e ora col bordo della maglietta toglie la polvere dall’obiettivo. Sai che una donna mi ha offerto sua figlia, per portamela via. Le guardo le mani, E tu che hai risposto?
 
 
La capanna del figaro
Manca un po’ d’acqua credo. Niente schiuma, la lametta raschia a difficoltà fra i capelli radi.
Si ferma come ad una scadenza, guarda allo specchio macchiato socchiudendo gli occhi per il gran calore, dondola la testa con un sorriso così. Sostituisce un’altra lama, la quarta. Io sto immobile, miope e sudato, in balia dei capricci balistici del mio figaro indiano.
La toilette sta procedendo bene, efficienza e esotismo da non credere. Dall’esterno strombazzi e muggiti come in una cacofonia sperimentale, scorci sonori della pianura sconfinata infuocata alle tre di pomeriggio. Facendo gesti scomposti allo specchio cerco di dirigere le traiettorie del taglio, ne va dei nei e del cuoio capelluto tutto. I due barbieri alle mie spalle danzano sommessamente la danza delle pennellate e delle sforbiciate, neanche si sfiorano in quest’ acrobazia giornaliera.
Lei mi osserva dall’uscio, in controluce, splendida a mezzo metro da me, una risata e una fotoricordo ad ogni smorfia esagerata. Neanche mi accorgo del mio vicino-cliente, solo qualche ondata di sudore e campagna quando scuote le mani davanti al volto, le mosche a succhiare saccarina dalla sua pelle grassa.
Il ventilatore puntato in faccia turbina come agonia di giri lenti e gommosi, praticamente inutile e quindi bello. Lo smog e il calore e i nostri odori e tutto, l’aria è un blocco di basalto trasparente. Spazzati via gli ultimi capelli mi toglie con scioltezza l’asciugamani sintetico e apre un tubetto di metallo, spremuto all’osso, color avorio. Sento un piacevole calore sulle guance. Mi ammorbidisco, mi sento quasi buono e nuovo. Movimenti maschi e circolari allargano due dita di cremina dopobarba: pizzicorii freschi sui micro-tagli e narici riempite di menta dolciastra, come il vaporub che da piccolo mi salvava dall’apnea. Stessa sensazione familiare e rassicurante.
Lei sta ancora seduta sullo gabellino che schiaccia la polvere dell’uscio, sorride sinuosa come una pesca. Offre noccioline a uno dei puttini scuri che oziano nella baracchetta lì accanto e poi li sorprende con le bolle di sapone che caccia dal mio zaino. Oh, e poi oh, e poi le vanno tutti sotto per accalappiare le bolle e annientarle e si fermano solo quando lei fa gli occhi duri. E’ un’arte, una dote maligna e un’arma, sono i geni a regalarti uno sguardo così, capace di dominare e asservire gli eventi. L’occhio come disegnato da Modigliani, florido e definito, di un verde marronato, controllava, controllava e decideva chi avrebbe meritato il suo raggio raggelante. I bambini si arrestano, non rifiatano neanche e tornano a spulciare le mucche e a lanciare sassi alle lucertole nei campi impotenti dietro la capanna del figaro.
Insomma attimo sospeso e ordine ristabilito, ma non per le nostre contrattazioni: in un inglese caricaturizzato e breve, servendoci di gesti universali e ammicchi incomprensibili, discutiamo a lungo sul prezzo del taglio a zero. La volontà di fondersi con i capricci del posto, di dare valore anche all’inutile, mi ha astratto dal mio ruolo di alieno a tempo determinato. L’avarizia gratuita e superflua è il contrappasso all’amabile gioco del ribasso e del rilancio su una cifra leggibile in due sensi. Le 20 rupie che mi chiede nell’economia della sua giornata sono 80 bidi croccanti, una corsa in risciò, un sacco di riso, qualcosa ecco. Per me sono una cifra da lanciare in una fontana pubblica per chiedere di ritornarci, il cambio di un gettone telefonico, nulla ecco. Tolgo i biglietti stropicciati dalla tasca e glieli porgo. Il barbiere oscilla soddisfatto il capo, è contento del suo lavoro e della pertinente maggiorazione di prezzo operata al turista di passaggio, amico immobile di una mezz’ora.
 
 
 
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